Al GAM di Torino in mostra Jannis Kounellis



Giovanni Cardone Settembre 2022
Fino al 13 Novembre 2022 si potrà ammirare alla GAM- Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino la mostra di Jannis Kounellis a cura di Elena Volpato, prosegue il ciclo di esposizioni dedicate alla storia del video d’artista italiano tra anni Sessanta e Settanta. La mostra, sesto e ultimo appuntamento della collaborazione con l’Archivio Storico della Biennale di Venezia, si compone di tre diverse manifestazioni dell’immagine di Apollo che Kounellis mise in opera, tra il 1972 e il 1973, nascondendo il proprio volto dietro una maschera di gesso recante le fattezze del dio. In una mia ricerca storiografica e scientifica sull’Arte Povera e in particolar modo sulla figura di Jannis Kounellis apro il mio saggio dicendo : Il lasso di tempo compreso tra il 1966 e il 1972 è stato consacrato a quella che Lucy Lippard definisce la “smaterializzazione dell’oggetto artistico”, quella tendenza volta a riconsiderare l’arte come processo fisico e mentale che caratterizza fenomeni coevi variamente etichettati come Antiform, Body Art, Land Art o Arte Concettuale. Nel testo introduttivo al catalogo di When Attitudes Become Form, tenutasi alla Kunsthalle di Berna nel 1969, Harald Szeemann fa notare però che ciascuna di queste esperienze colga e sviluppi solo un singolo aspetto di un fenomeno ben più complesso e unitario. Alla base di simili osservazioni vi è infatti coscienza del fatto che le ricerche incentrate sulle proprietà chimiche e fisiche della materia, sulla verifica del proprio essere-nelmondo e sul linguaggio, facciano capo a un medesimo problema, quello del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Per questo motivo il critico svizzero trova un denominatore comune a tutte queste esperienze nel concetto di “attitude”, indicando con esso attività continuative svolte mediante l’applicazione di specifiche capacità operative. La proposta szeemanniana trova rapida ricezione in Italia dove si inizia a utilizzare in modo sempre più consapevole il termine di “comportamento” che, pur apparendo in vari testi critici già a partire dal 1967, trova la sua sanzione definitiva al Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 1972. A differenza di etichette come Antiform, Body Art o Land Art, quella di Comportamento assume un ruolo di sistemazione critica e teorica, provvedendo a una possibile unificazione delle esperienze menzionate, individuando un denominatore comune nell’agire dell’artista, nell’esercizio di facoltà fisiche e mentali, estetiche e noetiche. La vasta ed eterogenea area di ricerche comportamentali degli anni Sessanta e Settanta mira infatti a indagare gli infiniti modi in cui l’uomo si relaziona al proprio ambiente, mettendo in luce la natura profondamente “transattiva” dell’esserci, il profondo legame tra uomo e mondo. È ciò che insegnano le filosofie della percezione e dell’esperienza come la fenomenologia e il pragmatismo, che costituiscono difatti i più sicuri poli teorici per comprendere simili ricerche artistiche, nate in sintonia con una rivoluzione mediale che amplia e velocizza in modo significativo le possibilità comunicative e percettive dell’uomo, stimolando indagini estetiche a tutto campo. Se la stagione artistica precedente, con l’esplosione della Pop Art, veicolava i valori di una società dell’avere, con ingombranti soluzioni oggettuali che riducevano il soggetto a un grado minimo o nullo, la stagione del Comportamento riabilita i valori dell’essere e riscopre il soggetto umano come entità mutevole e ricca di energie fisiche e mentali cui dare nuova voce. Da qui anche l’attenzione rivolta ai processi primari della materia, alle reazioni fisiche e chimiche dei materiali e alle loro attività energetiche, paradigmi di un divenire vitale del mondo in progressione continua. Le spinte dell’organico e quelle di una corporalità vissuta nelle sue manifestazioni più essenziali ed elementari tornano perciò a farsi sentire, come ai tempi dell’Informale, ma con la possibilità di lasciare tracce più estese, affidandosi a dotazioni tecnologiche portatrici di un’energia affine a quella umana. È ciò che emerge con particolare forza dalle prime soluzioni dell’Arte Povera, una tendenza articolata e polimorfa volta ad azzerare i significati, a impoverire il portato semantico di azioni e situazioni in favore del loro puro valore di esperienza. Ciò avviene tanto sul piano di una ricerca fisica che Piero Gilardi ha definito “microemotiva”, ossia volta a esaltare l’operosità delle energie primarie e naturali, quanto su un piano largamente concettuale, dove ogni aspetto del mondo, dal più elementare o banale al più colto e sofisticato, viene sottoposto a una ridefinizione estetica, secondo l’importante lezione di Marcel Duchamp. Lo spostamento della pratica artistica dal piano delle forme a quello delle azioni e delle idee viene a coincidere inoltre con una radicale differenziazione operativa interna al percorso di ogni singolo artista che mette in crisi la secolare convenzione della coerenza stilistica. A una simile problematica la critica militante ha spesso risposto avanzando motivazioni di ordine ideologico, correlando l’estrema varietà operativa degli artisti del Comportamento alla libertà di azione sottesa al clima rivoluzionario del Sessantotto, sintetizzato nel famoso slogan dell’“immaginazione al potere”. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta si registra infatti una spiccata disinvoltura tra gli artisti nel passare dalle pratiche del processo a quelle della performance o del concetto, dall’uso di materie naturali all’uso di citazioni colte, dal ready-made alla fotografia, dal video alla scrittura. In proposito si è spesso insistito su una voluta incoerenza di questi artisti che, secondo l’ottica poverista, tendono a un “libero progettarsi”, attestando una necessità di eludere categorie e incasellamenti di sorta. Questa apparente incoerenza si può motivare anche ragionando in una prospettiva non ideologica ma estetica, secondo quel paradigma che Enrico Crispolti ha definito “extra-mediale”. In quest’ottica, la pluralità di proposte di un singolo artista viene intesa come la naturale conseguenza dell’adesione alla varietà dell’esperienza, solcando il livello esistenziale-pragmatico e assumendo nella propria gamma mediale l’illimitato serbatoio dell’esistente. Operando, come nella vita di tutti i giorni, tramite una mutevole e progressiva pluralità di segni, mezzi e materiali, l’artista postmoderno non distrugge quindi la coerenza del proprio lavoro, ma la sposta dalla somatica delle forme, dalla pelle dello stile, all’intenzione e alla pertinenza estetica del mezzo di volta in volta selezionato e adoperato. Non si tratta dunque di un attacco al dogma della coerenza, ma di una coerente apertura al molteplice nella misura in cui il mondo e l’esperienza si danno come molteplicità. Di fronte a una così oscillante e mutevole eterogeneità di pratiche, il metodo di studio più fertile ai fini di una sistemazione critica è risultato essere quello, definito da Luciano Anceschi, di una fenomenologia delle poetiche, un approccio che nasce dalla crisi delle estetiche sistematiche volte ad assunzioni universalizzanti di aspetti parziali e, come tali, incapaci di risolvere la comprensione della realtà estetica nella sua complessità e nella sua variabilità. A fronte di quei sistemi “chiusi” che tendono a unificare il reale attorno a un principio assoluto e pretenziosamente immutabile, il sistema “aperto” della fenomenologia delle poetiche tende a ragionare per integrazioni continue a partire da quella che si configura come la riflessione degli artisti sul loro stesso fare, includendo i valori procedurali, ideativi e culturali che la alimentano. Valori che sono impliciti alle soluzioni attuate, ma che possono anche trovare esplicitazione attraverso dichiarazioni dell’autore stesso. In quanto tale, ogni poetica tende a imporsi come sistema universale, esclusivo e dogmatico, in corrispondenza alle necessità dell’artista di agire secondo una specifica visione del mondo e dell’arte, dando agli strumenti di volta in volta adottati significati storicamente o individualmente determinati. Il metodo della fenomenologia critica tende perciò a un’integrazione continua e mai definita una volta per tutte delle parzialità poietiche, rilevandone e rispettandone le intenzioni che le animano, poiché riconosce in ciascuna di esse uno sforzo teso ad arricchire la nozione stessa di arte.
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