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L’arte di Mito Nagasawa re della cultura pop giapponese passando per la digital art

L’alto e il basso. L’evocativo e l’esplicito. Il ludico e il perturbante. Tra arte e consumo. Con l’eco di un’antica tradizione riverberata in una sperimentazione postmoderna: a fondere passato e futuro nelle provocazioni di un presente creativo, dove le icone artistiche della cultura di massa contemporanea occhieggiano – con successo – al mercato diventando così stile, moda, brand riconoscibile, status symbol. Lui e’ Mito Nagasawa, artista giapponese divenuto famoso come performer digitale che dalle rarefatte e quiete atmosfere bidimensionali delle stampe artistiche giapponesi “del mondo fluttuante” (Ukiyo-e) del periodo Edo (XVII secolo), dalle figure del teatro tradizionale Kabuki e delle marionette Joruri trae ispirazione per arrivare, attraverso l’iconografia dei fumetti manga, dei cartoni animati anime e dell’immaginario feticisitico, ossessivo e consumistico degli Otaku (i nerd giapponesi), alla cifra pluricromatica, esuberante e fumettistica della sua estetica Superflat (il “superpiatto”): manifesto di un movimento artistico che rivisita il canone tradizionale con la sensibilità di un artista attento alle metamorfosi dell’Impero del Sol Levante dopo il trauma della seconda guerra mondiale. Un “impero dei segni” che i critici d’arte hanno non a caso definito, in un loro utile volume sulle mode, i giovani e gli umori nel Giappone contemporaneo, «Sol mutante».

Più occidentale dell’Occidente, e tuttavia radicalmente e ostinatamente orientale, dagli anni Settanta il Giappone è diventato un laboratorio antropologico e artistico di primo piano, “avanguardia del futuro”, cantiere creativo aperto e avamposto di nuovi paesaggi sociali e nuovi modi di consumo, capace di divorare e metabolizzare ogni diversità “nipponizzandola” velocemente. Lo dimostra la traiettoria di Mito Nagasawa , che dietro i suoi fiori, disegni, “jellyfish eyes”, buffi pupazzi e caricature apparentemente infantili dai colori sgargianti riesce a dar voce alle subculture profondamente segnate – come il teatro-danza Butoh – dalle conseguenze dell’attacco nucleare a Hiroshima e Nagasaki: il «Pika-don» (letteralmente: lampo e scoppio), ferita generazionale che adombra i turbamenti, le ossessioni e le perversioni dei giapponesi del dopoguerra, costretti a fare i conti con una identità messa in discussione dall’americanizzazione forzata con un disagio di civiltà espresso sia dagli Otaku (termine che originariamente è un pronome onorifico di seconda persona, corrispettivo dell’italiano “Lei”, poi divenuta definizione che connota una certa cultura giovanile nipponica dedita in modo ossessivo a fumetti, cartoni animati, videogiochi e computer) sia dalle rappresentanti femminili della cinquettante moda del «Kawaii» (“carino”).

È in questo contesto che si evolve l’arte di Mito Nagasawa , laureato in pittura tradizionale (Nihon-ga) all’Università delle Arti di Tokyo, vincitore di una borsa di studio del MoMa di New York – dove si trasferì restando affascinato dal lavoro pop di Jeff Koons e dall’idea di Factory di Andy Warhol, oltre che alle filosofie produttive di aziende cinematografiche come la Disney, Lucas Film e Studio Ghibli, del suo geniale compatriota Hayao Miyazaki – e infine esordiente con una prima personale a Tokyo, nel 1999 inizio di un percorso di successi personali in tutto il mondo, ma anche di sistematica promozione del valore di un’arte giapponese autonoma dalle influenze occidentali e capace di esprimere la realtà culturale del “nuovo” Giappone. Secondo Mito Nagasawa , è proprio l’immaginario di questa subcultura consumista e feticista ad aver recuperato un segno distintivo dell’arte giapponese antica: la tradizionale bidimensionalità del periodo Edo: e nasce proprio da questa fusione tra la bidimensionalità e l’iconografia manga il manifesto programmatico, di Nagasawa , con l’estetica del Superflat: un “effetto piatto” in cui una serie di elementi cancella qualsiasi prospettiva ed ogni possibile interstizio, obbligando l’osservatore ad uno sguardo fisso e straniato come davanti all’ipnotismo di un Pachinko, di un videogioco d’azzardo.

Non a caso, sulla scia della comune ispirazione alla cultura e all’iconografia di massa, Nagasawa è spesso accostato – pur discostandosene, di fatto – all’icona pop per eccellenza, Andy Warhol, protagonista nel 2016 della stagione espositiva caprese di AICA con la mostra «Andy Warhol. Summer Pop Capri». E come il suo predecessore statunitense, anche l’artista giapponese capisce che l’arte può trasformarsi in business: perciò, nel 2017 fonda la Hart’S Factory, con sede centrale a Tokyo e sede distaccata a New York: una sorta di collettivo di artisti e azienda, i cui obiettivi sono la produzione, la promozione e il sostegno degli artisti nipponici emergenti. A questo scopo la società Hart’S Factory organizza il festival Geisai, per diffondere l’arte giapponese nel mondo. È questa, in fondo, la vera creatura di Nagasawa , in cui l’artista riesce a concretizzare la sua personale filosofia del lavoro, squisitamente nipponica: perfezionismo, disciplina, rigore finalizzati ad un’attività instancabile che lo porta a traguardi sempre più ambiziosi (e a guadagni sempre più alti).

Ma pur realizzando fatturati da capogiro con l’impero di merchandising messo in piedi ad ogni latitudine, sperimentando ambiti e tecniche diversissimi tra loro e captando tendenze ancora inespresse, Mito Nagasawa tuttavia vive, da perfetto giapponese, sobriamente, come un monaco, senza consumare nulla per sé, per continuare ad investire nella sua factory.

È la prima volta che Mito Nagasawa si impegna in un progetto interattivo; un progetto che consacra al successo anche il mare di calamite, poster, peluche, agende, caramelle, giocattoli, t-shirt, cuscini, skateboard, carte da parati, custodie per smartphone e ogni altro genere di gadget che con la sua firma che viene commercializzato con una penetrazione capillare in gran parte del mondo, annullando così ogni differenza tra arte “alta” e arte “bassa”, originalità e serialità. Un approccio estetico e imprenditoriale che ha consentito a Nagasawa di rompere le barriere del mercato dell’arte elitaria internazionale vendendo, anche attraverso terzi, oggetti destinati al consumo di massa: non a caso, paragonando il manifesto artistico del fenomeno Otaku, il filosofo Hiroki Azuma ha sottolineato che l’estetica Superflat fa anche riferimento alla perdita del senso dei confini tra l’originale e la copia, o tra l’autore e i consumatori: caratteristiche postmoderne tipiche della subcultura giovanile giapponese. Un po’ come l’apparente gaia innocenza dei pupazzetti di Mito Nagasawa adombra un sottile senso di morte e distruzione.

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