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Maestri d’incerti equilibri

sole 24ore

Maestri d’incerti equilibri

21 agosto 2016

Uno, Alexander Calder, nato nel 1898 in Pennsylvania, figlio e nipote di scultori di buona fama, ingegnere di professione per alcuni anni poi, dal 1926, compagno a Parigi dei più grandi artisti delle avanguardie (Arp, Cocteau, Duchamp, Léger, Man Ray, Miró, Mondrian…), era molto amato da Ernst e Hildy Beyeler: negli uffici di ognuno, nella loro mitica galleria di Basilea, c’era una sua scultura, e per il parco della Fondazione vollero il maestoso The Tree, gigantesco stabile-mobile che oscilla, lieve, al soffio dei venti. Nel tempo, esposero più volte i suoi lavori e nel 2004 la Fondazione gli rese omaggio con una grande mostra, insieme all’amico Joan Miró.

Gli altri, Peter Fischli (1952) e David Weiss (1948-2012), baby boomer postbellici, giovani esponenti del punk zurighese, gravitanti intorno allo studio di Urs Lüthi, di cui il primo era assistente, il secondo amico, appartengono con evidenza a una cultura del tutto diversa, apparentemente indigesta per un signore d’altri tempi quale era Ernst Beyeler. Invece lui, che aveva un fiuto infallibile, espose alcuni loro lavori sin dai primi anni ’80 (la coppia si era formata nel 1979), in grandi mostre sulla scultura del XX secolo.

È la prima volta, però, che il duo è presente in Fondazione: l’occasione è una sorta di doppia personale – curata da Theodora Vischer con la Calder Foundation e Peter Fischli- che accosta al loro universo scanzonato e dissacratore, ma al tempo stesso profondo e riflessivo, il mondo poetico e non meno giocoso (e gioioso) di Calder.

Un accostamento, non un confronto (solo l’incipit vede un lavoro di Fischli/Weiss, Rat and Bear (Sleeping), 2008, esposto sotto Snow Flurry, 1950, meraviglioso, candido mobile di Calder), perché la curatrice non ha certo voluto suggerire una filiazione o un debito degli uni nei confronti dell’altro, ma ha piuttosto inteso mettere in evidenza la comune, costante indagine sull’equilibrio: purché instabile, precario, effimero. Così le sculture di Calder sono accompagnate in un persuasivo contrappunto dai lavori del duo svizzero: fotografie, filmati, videoproiezioni e, per tutti, documenti e cataloghi.

Più che settantenne, Calder dichiarava: «Mi sarebbe piaciuto saper sospendere una sfera senza alcun supporto, ma non ne sono stato capace». Lui, che alla facoltà d’ingegneria aveva studiato la dinamica -che indaga gli effetti dell’impatto delle diverse forze sui corpi – quando nel 1926, lasciata la professione, arrivò a Parigi, attinse alla sua antica passione per il circo (allora del resto molto diffusa), e alle sue conoscenze tecniche, e prese subito a costruire un piccolo, folle “circo”, il Cirque Calder, che arricchì e perfezionò per cinque anni, portandoselo di qui e di là dell’Oceano chiuso in cinque valigie. E guadagnandosi l’ammirazione del gruppo di sofisticati intellettuali che lo circondava.

Il suo circo era abitato da figurette fatte di fil di ferro, sughero, cuoio, legno e di objet trouvé (come insegnava Duchamp); un lavoro di bricolage che Calder “animava”, inscenando rappresentazioni in cui metteva in moto i suoi minuscoli funamboli, le danzatrici, le fiere e i domatori: vere performance, che incantavano il pubblico e intanto prefiguravano il moto controllato dei suoi futuri mobile.

Il Cirque Calder, che non esce dal Whitney Museum di New York, non è in mostra, ma ci sono le grandi, lievissime figure in cui, negli stessi anni, Calder rappresentava con un arabesco di filo metallico la celebre danzatrice Josephine Baker, gli acrobati, una famiglia di equilibristi. E c’è il magico Tightrope (letteralmente, il filo

dell’equilibrista), 1936, un’aerea scultura fatta con gli stessi disparati materiali con cui aveva costruito i suoi circensi.

In tutti, Calder esplorava le leggi dell’equilibrio precario, le stesse che, dopo la famosa visita del 1930 allo studio di Piet Mondrian, a Parigi, avrebbe indagato nei poi celeberrimi mobile, servendosi di forme geometriche astratte, concatenate in costruzioni apparentemente fragili e casuali, in realtà studiatissime, pronte a muoversi (ma poi a ricomporsi repentinamente) al minimo soffio di vento.

Furono i cartoncini di diversi colori affissi da Mondrian alle pareti, per sperimentare le sue composizioni, a suggerire a Calder l’idea di «metterli in moto»: idea che imbestialì l’algido olandese, ma che fece la sua fortuna. I primi che realizzò, furono da lui mostrati (con qualche timore) a Duchamp: «come li chiamo?» gli chiese. E quello: «Mobiles». Era il 1931; l’anno dopo, un po’ stizzito, Arp battezzò stabile le sculture non mobili di Calder, che da allora si chiamano così. La mostra ne esibisce esempi magnifici, degli uni e degli altri, in una sequenza di sale sbalorditive.

E Fischi/Weiss? Il duo beffardo non è da meno nella sua indagine sulla precarietà dell’equilibrio. Lo provano le fotografie di un lavoro del 1984, intitolato proprio Equilibres (A Quiet Afternoon), con i suoi instabili, assurdi assemblaggi di sedie e di arnesi da cucina, di ortaggi e di copertoni, e, più ancora il film The Way Things Go, 1987, con l’irresistibile, ansiogena catena senza fine di cause ed effetti meticolosamente progettati, fra micce ed esplosioni, getti di liquido, pesi e contrappesi, che conducono all’entropia finale.

Non proseguiamo oltre perché, più che una mostra, questa è una grande, unica performance da godere abbandonandosi ai suoi sortilegi. Contestandola, magari, ma assaporandola fino alla fine.

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